Omaggio a Alain Tanner

Omaggio a Alain Tanner

 

10.01-14.02/2023

In collaborazione con la Cinémathèque suisse

Scarica la locandina

UN OMAGGIO DOVUTO

Lo scorso autunno, a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro, sono venuti a mancare sulle rive del Lemano due registi, ultranovantenni e quasi coetanei, che hanno lasciato segni indelebili nella storia del cinema: Jean-Luc Godard in quella del cinema francese e mondiale; Alain Tanner, perlomeno, in quella del cinema svizzero. Del primo se ne è parlato e scritto abbondantemente, del secondo molto meno. Chiaro che l’importanza di Godard, attivo fino all’ultimo, è stata fondamentale (anche se poi sono ben pochi quelli che hanno saputo seguire e capire la sua costante ricerca sul linguaggio audiovisivo, soprattutto nell’ultima fase della sua carriera). Tanner invece, ritiratosi disilluso dal cinema dopo il testamento di Paul s’en va(2003), è stato un po’ dimenticato, e nel milieu del cinema svizzero, affollato di giovani registi rampanti, è ben raro sentirlo ancora nominare. Eppure è anche a lui (e ai suoi compagni del Groupe des 5) che si deve la nascita del Nuovo cinema svizzero, la nostra tardiva Nouvelle Vague che attorno al Sessantotto ha cominciato a rappresentare la Svizzera non più come un’isola felice, ma come un paese ipocrita e tristemente conformista, da cui chi cercava la propria libertà sentiva il bisogno di evadere. E l’ha fatto con un linguaggio cinematografico che rompeva completamente con quello del passato, così come la Nouvelle Vague francese (Godard in testa) aveva fatto con il “cinéma de papa”.

Chi era giovane nel nostro Paese negli anni Sessanta-Settanta è cresciuto (anche) con i film di Alain Tanner, ha attraversato le stesse inquietudini e lo stesso malessere dei suoi personaggi, ne ha condiviso le utopie, ha sognato con loro di uscire da una realtà meschina per trovare altri luoghi, altri mondi. Per alcuni, poi risucchiati nel sistema, si è trattato di uno smarrimento momentaneo, per altri di una condizione permanente. Come per Tanner stesso, sempre rimasto eticamente fedele alla sua visione della realtà e alla sua idea di cinema, che non è mai stata quella di raccontare una vicenda, ma piuttosto quella di esplorare con le giuste inquadrature lo stato delle cose, del mondo e della gente che lo abita. Un cinema che rifiuta sia la narrazione classica sia il didascalismo ideologico, ma che intende rappresentare desideri, paure, incertezze di persone inserite in uno spazio, in un contesto che può essere soffocante o ricercato come liberatorio. Il punto di partenza è il realismo: l’amore dichiarato per il neorealismo italiano, i primi documentari (Nice Time con Claude Goretta sulla vita notturna di Piccadilly Circus, Les apprentis, Une ville à Chandigarh). Poi la continua ricerca di un’estetica personale perseguita con coerente tenacia, di un cinema “di poesia”, che si può dire sempre pervaso di una malinconica ironia.

Questo omaggio postumo glielo dobbiamo, a Alain Tanner, che ci ha accompagnato nei nostri percorsi esistenziali, con la speranza che il suo cinema possa essere scoperto anche da chi è nato come Jonas negli anni ‘70 o nei decenni successivi e si ritrova vivere oggi in un mondo non certo migliore di quello di allora. Un omaggio che va anche al “nostro” Renato Berta, direttore della fotografia di ben cinque degli undici film in programma. E ringraziamo sentitamente la Cinémathèque suisse, che ci ha messo a disposizione la maggior parte dei film che presentiamo in copie digitali restaurate.

Michele Dell’Ambrogio, Circolo del cinema Bellinzona

 

Mercoledì 11 gennaio ore 20.45

CHARLES MORT OU VIF

Svizzera 1969, bianco e nero, v.o. francese, st. italiano/inglese, 90’

Soggetto e sceneggiatura: Alain Tanner; fotografia: Renato Berta; montaggio: Sylvia Bachmann; mu- sica: Jacques Olivier. Interpreti: François Simon, Marie-Claire Dufour, Marcel Robert, Maya Simon, André Schmidt, Jo Escoffier, Walter Schochli…

Pardo d’oro, Locarno 1969

In collaborazione con il Teatro dell’Architettura Mendrisio

Charles D., ricco industriale nel campo orologiero, cade in una profonda crisi esistenziale e decide di abbandonare l’azienda e la famiglia. Il suo vagabondaggio lo porta dapprima in diverse pensioni, poi troverà alloggio e serenità come ospite di una coppia anarcoide nella campagna ginevrina. Ma alla famiglia e alla società non piace questa sua ritrovata libertà…

Tanner, per il suo primo lungometraggio, si ispira a una storia vera e rappresenta una Svizzera grigia e disperata, allora controcorrente. Costruito come una specie di “poema contestatario, corrosivo ma con molta tenerezza e malinconico quasi fino alla disperazione” (Detassis), il film, scritto dopo lunghe discussioni con John Berger, traccia senza nessuna condiscendenza il bilancio di un sessantenne che è poi quello di un Paese, lacerato tra il desiderio di ricominciare da zero e la realtà mediocre e grigia. Indimenticabile il viso del protagonista, figlio di MichelSimon.

(da Il Mereghetti. Dizionario dei film 2019, Milano, Baldini+Castoldi, 2018)

 

Mercoledì 18 gennaio ore 20.45

LA SALAMANDRE

Svizzera 1971, bianco e nero, v.o. francese, st. italiano, 123’.

Sceneggiatura: Alain Tanner e John Berger; fotografia: Renato Berta, Sandro Bernardoni; montaggio: Brigitte Sousselier, Marc Blavet; musica: Patrick Moraz, Main Horse Airline. Interpreti: Bulle Ogier, Jean-Luc Bideau, Jacques Denis, Dominique Catton, Guillaume Chenevière…

Con l’aiuto dell’amico Paul, il giornalista Pierre deve scrivere una sceneggiatura televisiva sul caso di Rosemonde, una ragazza accusata di aver sparato allo zio, ma assolta per insufficienza di prove. I due hanno metodi diversi, ma nessuno dei due finirà la sceneggiatura. In compenso Rosemonde avrà imparato che la passività e la ribellione sono armi a doppio taglio.

Il secondo film di Tanner, scritto insieme a John Berger, è un “poemetto anarchico e dal respiro libero” (Detassis), dove confluiscono le sue esperienze autobiografiche – e contraddittorie – all’interno della televisione e la voglia di mettere a punto una sintassi cinematografica più libera e personale per offrire il ritratto di una donna insoddisfatta della propria vita e del mondo in cui vive, ma dotata comunque di una vitalità con cui saprà contagiare i due sceneggiatori. (da Il Mereghetti, cit.)

 

Mercoledì 25 gennaio ore 20.45

JONAS, QUI AURA 25 ANS EN L’AN 2000

Svizzera/Francia 1976, Colore, v.o. francese, 110’

Sceneggiatura: Alain Tanner e John Berger; fotografia: Renato Berta; montaggio: Brigitte Sousselier; musica: Jean-Marie Sénia. Interpreti: Jean-Luc Bideau, Myriam Boyer, Jacques Denis, Roger Jendly, Dominique Labourier, Myriam Mézières, Miou-Miou, Rufus…

La vita di Mathieu e Mathilde, che aspettano un bambino che si chiamerà Jonas e si augurano possa vivere in un mondo migliore del loro, si intreccia con quella di altri sei personaggi: una coppia di contadini, un professore di storia, un ex militante in crisi, una fanatica dell’induismo, una cassiera al supermarket e un ferroviere in pensione…

In una forma antirealistica e fantasiosa, Tanner e lo sceneggiatore inglese John Berger descrivono con tenerezza la “generazione che ha fatto il Sessantotto e che ha la testa nell’utopia e i piedi nella realtà” (Detassis) affrontando il nodo su cui si sono infranti tanti sogni (come far coincidere ideali e quotidianità). E lo fanno con una vitalità e una generosità che non aiuta certo a trovare la soluzione ai problemi ma indubbiamente contribuisce a credere che una via d’uscita ci dev’essere. (da Il Mereghetti, cit.)

 

Mercoledì 1 febbraio ore 20.45

DANS LA VILLE BLANCHE

Svizzera/Portogallo 1983, colore, v.o. francese/portoghese, st. italiano, 108′

Soggetto: Alain Tanner; fotografia: Acacio de Almeida; montaggio: Laurent Uhler; mu- sica: Jean-Luc Barbier. Interpreti: Bruno Ganz, Teresa Madruga, Julia Vonderlinn, José Carvalho, Francisco Baiao…

Premio César 1983.

Un uomo di mare in crisi si rifugia a Lisbona, la “città bianca” del titolo, riprende ciò che vede in super8, ha una storia con la cameriera dell’alberghetto in cui vive, ma continua a pensare alla moglie Elisa rimasta in Svizzera.

Dans la ville blanche è un blues sul mare e su Lisbona, città di mare. È un film sul tempo e sullo spazio, dunque sul cinema, che ha le cadenze di sogno, anzi di una “rêverie”, di un sogno ad occhi aperti. È come un blues sostenuto dalla voce struggente di un sassofono, ma con la sordina, che ha la malinconia, ma sommessa, di un “fado” lusitano. Film nato senza una sceneggiatura, sull’onda intermittente dell’improvvisazione (Tanner: “Se avessi scritto una sceneggiatura, avrei aggiunto del ‘senso’… e quel che volevo, questa volta, non era il senso, era la materia…”). Dans la ville blanche è un documentario su Lisbona, ma soprattutto su Bruno Ganz che, pur avendo “poco da fare”, sorregge con la sua presenza magnetica tutto il film. Ma tenete d’occhio anche Rose, la bruna Teresa Madruga: non s’incontrano spesso donne così vere sullo schermo. (Morando Morandini, Il Giorno, 27 agosto 1983)

 

Mercoledì 8 febbraio ore 20.45

NO MAN’S LAND

Svizzera/Francia/Gran Bretagna 1985, colore, v.o. francese, st. italiano, 110’

Soggetto: Alain Tanner; fotografia: Bernard Zitzerman; montaggio: Laurent Uhler; musica: Terry Riley e Krishna Batt. Interpreti: Hugues Quester, Myriam Mézières, Jean-Philippe Ecoffey, Betty Berr, Marie-Lucie Felber, Maria Cabral, Teco Celio…

 

“No Man’s Land è un film ‘tra’. Tra due scelte. Tra restare o partire, tra Paul e Jean, dunque anche sull’a- micizia. Tra Paul e Madeleine, Jean e Mali, Jean e Lucie, dunque anche sull’amore. Tra Paul e la sua linea di fuga, Jean e il suo territorio, Madeleine e la sua musica, Mali e il suo esilio. Tra il lavoro e la fuga dal lavoro, tra la speranza e la fuga dalla speranza. Tra la vita e la morte, la terra e le nuvole, il giorno e la notte. Tra due posti di dogana, nella terra di nessuno, alla frontiera franco-svizzera. Tra me e il cinema, il cinema e la fuga dal cinema”. (Alain Tanner)

Con delicatezza ed efficacia, Tanner racconta il male di vivere di chi non sa dare più un senso alla propria esistenza. Nella sua congenita indeterminatezza, la “terra di nessuno” del confine diventa uno spazio metaforico, una sorta di luogo del disorientamento interiore. Un film suggestivo, profondo nei dialoghi e nella descrizione dei personaggi. Musiche di Terry Riley. (da Il Mereghetti, cit.)

 

Mercoledì 15 febbraio ore 20.45

L’HOMME QUI A PERDU SON HOMBRE

Svizzera/Spagna/Francia 1991, colore, v.o. francese, st. italiano, 102’

Sceneggiatura: Alain Tanner; fotografia: José Louis López-Linares; montaggio: Monica Goux; musica: Arié Dzierlakta. Interpreti: Dominic Gould, Francisco Rabal, Angela Molina, Valeria Bruni-Tedeschi…

 

Antonio, vecchio comunista andaluso, è tornato nel proprio paese dopo un lungo esilio in Francia e ospita Paul, che si è rifugiato a casa sua dopo essersi fatto cacciare dal giornale in cui lavorava. Antonio pensa che Paul abbia perduto la propria ombra, perché non ha più idee, non sa più perché si fanno le cose. Intanto due donne sono sulle tracce di Paul: Anne, sua attuale compagna, e Maria, la precedente. Poi Antonio scomparirà, e con lui scompare tutto un pezzo di storia, quello delle utopie sociali. Paul ha sì perduto la propria ombra, ma non quella che credeva Antonio. Era lui, Antonio, l’ombra di Paul.

La chiave della storia va cercata nel filosofo Jean Baudrillard, del quale Tanner cita questa frase in epigrafe: “Ogni cosa che perde la propria essenza è come un uomo che ha perduto la sua ombra” (…) Il problema del film è forse lo stesso del breve romanzo di Chamisso (L’homme qui a perdu son ombre è anche il sottotitolo del famoso Peter Schlemihl di Chamisso), e cioè una certa incapacità a comunicarci questo sentimento tragico, questa sensazione di disastro che si deve provare nel “perdere la propria ombra”. (Claude Baignères, “Le Figaro”, 25-26 gennaio 1992

 

10.1-14.2/2023
Prev project Next project