JIM JARMUSCH – Fare film con la musica in testa
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“Cos’è una storia se non uno di quei disegni a puntini che, collegati, formano l’immagine di qualcosa?”
La battuta di Allie, protagonista del film di esordio di Jim Jarmusch, Permanent Vacation (1980), in cui un giovane bohémien vaga senza una meta precisa nella New York d’inizio anni ’80, suona come una dichiarazione di poetica da parte di quello che fin da subito si fa notare per l’originalità di un minimalismo ironico e disincantato e che in poco tempo diventerà il più cool fra i rappresentanti del cinema indipendente americano.
Nato nel 1953 e cresciuto ad Akron, città industriale dell’Ohio, studi in giornalismo e in lettere, Jarmusch s’innamora definitivamente del cinema a Parigi, dove si trasferisce per una ricerca su André Breton e il surrealismo. Lì frequenta assiduamente il tempio della cinefilia, la Cinémathèque française, e quando poi torna negli Stati Uniti si iscrive alla Film School della New York University. È assistente di produzione su Nicks Movie, il documentario che Wim Wenders sta girando con Nicholas Ray sui suoi ultimi giorni di vita, e sarà proprio Wenders a spingerlo a girare il primo film, Permanent Vacation: è nato un regista.
Unire i puntini, nel senso di collegare momenti diversi, scene a sé stanti, ritagliate e ripulite del superfluo, magari separate da fotogrammi neri, in un assemblaggio che richiama la tecnica del collage, che Jarmusch ama e pratica da sempre come una sorta di passatempo terapeutico, fino a pubblicarne un libro (Some Collages, Anthology Editions, 2021): è così che funzionano i film di Jim Jarmusch, ed è così che sono costruiti, accumulando i materiali più diversi, selezionandoli e assemblandoli a seconda di come si combinano tra di loro.
Lo stesso vale per la musica. Jarmusch ci vive dentro, non si può parlare del suo cinema senza parlare della sua musica. “Per me fare un film è un’attività musicale: durante le riprese e il montaggio, il tempo scorre in forma visiva, così come l’ascolto della musica fa sentire il tempo fisicamente. La musica e il film definiscono uno spazio temporale nel quale la mente può entrare e sperimentare un certo tempo”.
Musicista a sua volta, non ha mai smesso di attingere ai generi più diversi, dalla musica africana, al jazz, al rock, al pop, all’hip-hop, al rap, a Mahler… Intrecciando amicizie e sodalizi musicali con figure di spicco del mondo dell’arte e della musica alternativa, li coinvolge nei suoi film, li fa recitare, affida loro la colonna sonora, gira videoclip dei loro brani (Talking Heads) o interi documentari, come nel caso di Neil Young e Iggy Pop*, e arriva perfino a convocare il fantasma di Elvis Presley.
“L’unica cosa che conta in America è trasformare tutto in un oggetto per poterlo vendere, contano solo l’avidità e il guadagno. Per oppormi, io giro film su personaggi disadattati o marginali e sulle cose apparentemente insignificanti che fanno”.
Personaggi senza radici, marginali a vario titolo, outsider strampalati si muovono senza una meta precisa in paesaggi desolati e spazi periferici, sempre attraversati con ironia e distacco. Luoghi dove le cose semplicemente succedono. Incontri frammentari, dialoghi surreali e un costante senso di spaesamento. Gesti e dettagli insignificanti che messi insieme formano un mondo, una colonna sonora.
Nei primi film, quelli presentati in questa rassegna, quando scrive una sceneggiatura ha già in testa la musica, ma a partire da The Limits of Control (2009) preferisce lavorare direttamente sulla colonna sonora, con il musicista Carter Logan. Un sodalizio che li porterà fino all’ultima produzione firmata SQÜRL, “gruppo rock allegramente marginale”: un disco dal titolo Silver Haze e un progetto di musica dal vivo sulle immagini di quattro cortometraggi surrealisti di Man Ray. Film muti, in bianco e nero, accompagnati dal vivo, come nel cinema delle origini, tanto per dimostrare cosa può uscire dai collage del più eclettico e cinefilo dei registi indipendenti contemporanei, di cui aspettiamo impazienti l’uscita del prossimo film. Attenzione però, stando alle prime anticipazioni potrebbe essere… senza musica!
Cineclub del Mendrisiotto
Mercoledì 28 febbraio, ore 20.45
STRANGER THAN PARADISE
USA/Germania 1984, b/n, 90’
Sceneggiatura: Jim Jarmusch, John Lurie; Fotografia: Tom DiCillo; Musica: John Lurie
Con John Lurie, Eszter Balint, Richard Edson, Cecillia Stark…
V.o. inglese e ungherese, st. francese/tedesco
Caméra d’Or a Cannes, Pardo d’Oro a Locarno
Bela, giovane immigrato ungherese che vuol essere chiamato Willie, tira a campare e vive di espedienti con il suo amico Eddie. La cugina di Willie, Eva, arriva a New York dall’Ungheria per raggiungere una zia a Cleveland. Un anno dopo, Willie e Eddie, perditempo impenitenti, decidono di andare a trovarla a Cleveland. Insieme, i tre partiranno in macchina per la Florida, dove, per una serie di equivoci, perderanno l’uno le tracce dell’altro.
Il film che ha rivelato Jarmusch al pubblico internazionale, e il saggio più coerente di un minimalismo che allora sembrò di una originalità dirompente (…). Narrazione frammentata (tanti piccoli episodi ognuno dei quali è un piano sequenza, intervallati da fotogrammi neri), rimandi ironici al noir e al road mowie, poesia dell’evento insignificante (…). Girato con gli scarti di pellicola di Lo stato delle cose di Wim Wenders, all’inizio doveva essere un cortometraggio. (Il Mereghetti)
Jarmusch insegue la vita con un’etica di sguardo e un’onestà registica veramente commoventi. Il suo intimo e paradossale sentimento di estraneità (anche alla stessa famiglia del cinema americano) trasuda da personaggi più strani del paradiso, sopravvissuti alla morte delle ideologie (…), ospitati da un’inquadratura che lascia ogni azione e reazione in fuori campo. Soffermandosi solo sul viaggio a vuoto che si fa costantemente un sublime tempo del sentimento. (Pietro Masciullo, sentieriselvaggi.it)
“È una storia sull’America, vista attraverso gli occhi di “stranieri”. È anche una storia sull’esilio, dal proprio paese e da se stessi, e sui legami che si sono appena persi.”
John Lurie (Willie), leader dei Lounge Lizards, è autore anche delle musiche per quartetto d’archi. Richard Edson (Eddie), ex batterista dei Sonic Youth e trombettista dello stesso giro, è al suo debutto cinematografico. Eszter Balint (Eva) è un’attrice, cantante e musicista. La canzone che ascolta nel registratore è I Put a Spell on You di Screamin’ Jay Hawkins.
Mercoledì 6 marzo, ore 20.45
DOWN BY LAW (DAUNBAILÒ)
USA /Germania 1986, b/n, 108’
Sceneggiatura: Jim Jarmusch; Fotografia: Robby Müller; Musica: John Lurie
Con Tom Waits, John Lurie, Roberto Benigni, Ellen Barkin, Billie Neal, Nicoletta Braschi, Rockets Redglare, Vernel Bagneris…
V.o. inglese, st. francese/tedesco
Jack, un magnaccia di mezza tacca, Zack, un dee-jay di quart’ordine e Roberto, un turista italiano, si ritrovano rinchiusi nella cella di un carcere di New Orleans. I primi due sono vittime delle proprie sciagurate scelte di vita, il terzo si trova in pratica lì per caso. Ma è proprio lui a dar forza ai compagni di cella, dapprima con la sua verve comica, poi riuscendo a trovare il classico passaggio segreto che conduce alla libertà. Dopo svariate avventure, Roberto troverà anche l’amore, mentre gli altri due andranno ognuno per le propria strada. (mymovies.it)
Esistono tre personaggi e una serie di luoghi, più che una storia. Partendo da una sceneggiatura con un largo margine di improvvisazione, Jarmusch mescola i generi, gli stili, i toni, ma soprattutto lascia liberi gli attori in un gioco dove l’ironia si alterna con la buffoneria. Se si accettano le regole è un film di una simpatia cui è difficile resistere. Fotografia di Robby Müller. (Il Morandini)
La voce di Waits apre e chiude il racconto, rispettivamente con Jockey Full of Bourbon e Tango Till They’re Sore, la prima una ballata “piratesca” che accompagna una carrellata per le strade di New Orleans, quasi un’anticipazione della favola sgangherata cui si assiste, la seconda ancora più della prima influenzata da sonorità tipiche della città di Louis Armstrong. (…) La musicalità della lingua italiana fa a pugni con lo slang utilizzato da Waits e John Lurie, ma da questa dialettica nascono gag, incomprensioni e infine un’empatia che va oltre la provenienza e la nazionalità, sfociando in quel melting pot culturale che così spesso nei film di Jarmusch caratterizza l’incontro con l’altro. (Carlo Maria Rabai, triennale.org)
“Io non scelgo gli attori, scelgo le persone. Scrivo film per persone che mi piacciono. (…) Roberto è un improvvisatore nato. È come un musicista jazz.”
”Down by Law è un film sul linguaggio. Sulla possibilità di avere una comunicazione anche senza far uso delle parole.”
Mercoledì 13 marzo, ore 20.45
MYSTERY TRAIN (MARTEDÌ NOTTE A MEMPHIS)
USA/Giappone 1989, colore, 117’
Sceneggiatura: Jim Jarmusch; Fotografia: Robby Müller; Musica: John Lurie
Con Masatoshi Nagase, Youki Kudoh, Screamin’ Jay Hawkins, Joe Strummer, Cinqué Lee, Elizabeth Bracco, Nicoletta Braschi, Rick Aviles, Steve Buscemi…
V.o. inglese, giapponese, italiano; st. francese/tedesco
Premio per il miglior contributo artistico a Cannes
Memphis, Tennessee. Tre storie ambientate in un hotel fatiscente alla periferia della città. Una coppia di adolescenti giapponesi è in pellegrinaggio nei luoghi mitici di Elvis e del rock’n’roll. Una giovane vedova italiana viaggia col marito in una bara cercando di riportarlo in patria e finisce per dividere la stanza con una ragazza che ha appena rotto con il fidanzato. Il fidanzato suddetto, dopo un fatto di sangue, si rifugia con due amici nello stesso albergo. Le loro storie si incrociano nella stessa notte senza che loro si incontrino, se non nel culto di Elvis e della musica rock.
Terza parte di una sorta di trilogia iniziata con “Stranger than Paradise” e “Down by Law”, “Mystery Train” (1989) è senza dubbio uno dei migliori risultati di Jim Jarmusch. Come complice beffardo della globalizzazione e del disincanto, riesce a trovare un equilibrio tra i fantasmi del passato e il piacere infantile della farsa. Lo spettro di “Mystery Train” è Elvis Presley, un ideale che perseguita un’intera generazione di americani bianchi, per non parlare dei giapponesi! (Frédéric Maire, e-periodica.ch)
“A Memphis ci sono centinaia di migliaia di abitanti e tutto sembra abbandonato. Si sente solo il rumore dei ventilatori e delle radio a lunga distanza. Memphis ha il blues. Dopo la morte di Martin Luther King tutti i musicisti sono andati a Nashville per il rock, a Jackson per il blues, a New Orleans per il jazz. A Memphis sono rimasti solo i musei.”
Il musicista rock Screamin’ Jay Hawkins interpreta il portiere di notte; Cinqué Lee, figlio del compositore di jazz Bill Lee e fratello del regista Spike Lee, è il fattorino; Johnny, che tutti chiamano Elvis, è interpretato da Joe Strummer, compianto leader dei Clash; Rufus Thomas, figura leggendaria del rythm n’ blues, è il clochard alla stazione. La voce del dj alla radio è quella di Tom Waits.
Mercoledì 20 marzo, ore 20.45
DEAD MAN
USA/Germania/Giappone 1995, b/n, 121’
Sceneggiatura: Jim Jarmusch; Fotografia: Robby Müller; Musica: Neil Young
Con Johnny Depp, Gary Farmer, Lance Henriksen, Michael Wincott, Crispin Glover, Gabriel Byrne, John Hurt, Robert Mitchum, Alfred Molina, Mili Avital, Billy Bob Thornton, Jared Harris…
V.o. inglese, st. francese/tedesco
Il giovane William Blake parte dalla sua città natale, Cleveland, per recarsi a Machine, nel west degli Stati Uniti, ad accettare un’offerta di lavoro. Arrivato in città scopre che il lavoro è stato affidato ad un altro e, accidentalmente, uccide proprio il figlio del proprietario della fabbrica, rimanendo lui stesso gravemente ferito. Inseguito da tre bounty killers ingaggiati dal ricco industriale, inizia un percorso che lo porterà alla morte in compagnia di un indiano di nome Nessuno che ha studiato in Inghilterra e pensa che si tratti della reincarnazione del poeta omonimo.
William Blake è un essere gentile e delicato, fuori posto nel selvaggio e macho West, di cui Jim Jarmusch demistifica il mito per costruirne un altro, ancora più potente ed epico, imperniato sul “viaggio spirituale” dell’uomo, prendendo come nume tutelare l’omonimo poeta (Blake) (…) e facendosi accompagnare da un omerico “Nessuno” indiano, vale a dire un’altra vittima del cruento “sogno americano” (insieme alla donna, non a caso il solo altro personaggio che accoglie in seno il protagonista). Lo humour nero ai limiti del demenziale vuole dissacrare capisaldi come la famiglia, il capitalismo e l’ipocrisia del cristianesimo (…). (Niccolò Rangoni Machiavelli, spietati.it)
La colonna sonora originale composta davanti allo scorrere delle immagini da Neil Young (…) è ricca, di volta in volta, di suggestioni industriali, con la chitarra che riproduce il suono della locomotiva o della fabbrica, mentre in altri momenti scivola ad accarezzare gli alberi o i resti di accampamenti indiani devastati, conservando sempre quel feedback che è marchio di fabbrica di Young e con lui di una certa controcultura americana a cui, benché in modo diverso, anche Jarmusch appartiene. (Roberto Rosa, sentieriselvaggi.it)
«Neil Young non era molto interessato. (…) Alla fine mi ha chiesto di mandargli una parte del montato e quando l’ha vista si è offerto di improvvisare una colonna sonora dal vivo, davanti allo schermo. In due giorni. Solo lui e la sua chitarra. Non avrei potuto sognare di meglio.”
Mercoledì 27 marzo
GHOST DOG – THE WAY OF THE SAMURAI (GHOST DOG – IL CODICE DEL SAMURAI)
USA/Francia/Giappone 1999, colore, 116’
Sceneggiatura: Jim Jarmusch; Fotografia: Robby Müller; Musica: RZA
Con Forest Whitaker, John Tormey, Cliff Gorman, Henry Silva, Frank Minucci, Isaach De Bankolé, Tricia Vessey, Victor Argo, Gene Ruffini…
V.o. inglese, st. italiano
Ghost Dog vive sopra la città, accanto ai suoi piccioni, in un capanno che si è costruito sul tetto di un immobile abbandonato. Guidato da un antico codice samurai (l’Hagakure di Yamamoto Tsunemoto), è un killer professionista che s’infila nella notte e scivola nella città senza mai essere visto. Quando il suo codice è pericolosamente tradito dal disfunzionamento di una famiglia mafiosa che lo impiega occasionalmente, reagisce rigorosamente secondo la Via del Samurai.
Jarmusch parla lingue diverse come l’America che racconta: scherza e invece fa sul serio, o viceversa, finge di scombinare il noir mentre ne coglie il senso profondo, seppure trasfigurato, riscritto, persino purificato da un’ironia iperbolica piena di richiami interni, di sfumature, di risvolti. (Marco Bolsi, sentieriselvaggi.it)
Jarmusch, padre indiscusso della rinascita del cinema indipendente americano, guarda al Frank Costello faccia d’angelo (Le Samouraï) di Jean-Pierre Melville del 1967, cita Rashomon e riesce a far incontrare e coesistere nel suo film più generi: il thriller, il noir, il western e la commedia. Con Ghost Dog Jarmusch regala al pubblico uno dei personaggi iconici più amati del cinema contemporaneo: il solitario e fedele killer/samurai, interpretato da un superbo Forest Whitaker (…). Presentato nel 1999 in concorso al 52° Festival di Cannes, Ghost Dog – Il codice del samurai è diventato negli anni un film di culto, grazie anche all’indimenticabile colonna sonora hip hop a firma di RZA, leader newyorkese del Wu-Tang Clan. (CG Entertainment, cgtv.it)
“RZA mi ha insegnato ad adattarmi al suo stile, come ha fatto Neil Young. Ma mentre Neil diceva: “Voglio suonare in base alle immagini”, lo stile di RZA era: “Questo è il mio modo di lavorare, lo stile hip-hop, devi giocare con la musica che ti ho dato, fanne quello che vuoi”. Quindi ho imparato molto da entrambi, in modi diversi.”